Mostra storica "Salvare Torino e l'arte".
Palazzo Barolo 22/11-01/12 2019.
Dove è stato nascosto il Caval d’ brôns durante la Seconda Guerra Mondiale?
Come sono stati protetti i reperti del Museo Egizio e la Sindone?
Perché la Mole Antonelliana si è salvata dagli attacchi dei bombardieri alleati?
Com’era organizzato il sistema di difesa civile? La mostra risponde a queste e molte altre domande attraverso immagini, filmati d’epoca e l’esperienza di realtà virtuale “Torino, 12 giugno 1940”. Ai visitatori sono illustrate le opere di salvataggio del patrimonio artistico e culturale piemontese da parte dei funzionari, direttori di musei, insegnanti e vigili del fuoco che durante la Seconda guerra mondiale si adoperarono per preservare quante più opere e documenti possibili. Sono inoltre descritte le azioni di salvataggio della popolazione ad opera dai vigili del fuoco durante e dopo i numerosi bombardamenti subiti dalla città tra il 1940 e il 1945.
La mostra è ispirata al libro “Salvare Torino e l’arte”, scritto da Elena Imarisio, Letizia Sartoris e Michele Sforza e pubblicato da Graphot editrice.
Nell’immaginario collettivo Torino viene associata all’industria con lo sviluppo del settore della siderurgia, metallurgia e meccanica che vede la FIAT come principale attore di questo scenario. Le inevitabili trasformazioni sotto l’aspetto urbano e sociale (immigrazione) e il lento distaccarsi dalla tradizione sabauda verso la nuova connotazione legata alla rivoluzione industriale, mutano profondamente la città. Ma il nostro interesse si è rivolto all’altra Torino quella legata all’arte e alla fruizione museale da parte dei cittadini. La città si sta modificando assumendo caratteristiche di modernità. L’arte? Vuole emergere in qualche modo dopo gli anni di guerra, ma si trova di fronte un regime totalitario. Figure come Casorati cominciano ad entrare in conflitto con la Promotrice di Belle Arti. Riccardo Gualino, imprenditore torinese, grande collezionista cede la sua collezione alla galleria sabauda prima di essere arrestato dal regime.
La città era preparata per un attacco nel giugno del 40? Assolutamente no. Nonostante già durante la prima guerra mondiale si fossero verificati episodi di distruzione del patrimonio come la cattedrale di Reims. La macchina della protezione e della tutela in Italia, iniziò ad essere efficace molto tardi.
Per quanto riguarda l’aspetto della protezione passiva del patrimonio artistico e culturale italiano, il Ministero di competenza negli anni ’30 era quello dell’Educazione Nazionale con l’aiuto delle Soprintendenze.
Nel ’34 il ministero attraverso due circolari diede indicazioni importanti sulla salvaguardia delle opere suddividendo i beni in beni immobili e mobili. Per i primi si prevedeva il trasporto in località protette, mentre per i secondi una protezione in situ con materassi di alghe e sacchi di sabbia.
Nel 1937 la distruzione della città di Guernica, immortalata da Picasso, evidenziava l’importanza di muoversi preventivamente contro gli attacchi aerei.
Da qui la necessità di un riordino legislativo, nonché un coordinamento tra Ministero, Soprintendenze e organi provinciali di protezione. La nuova serie di indicazioni introducono un nuovo mezzo di protezione: un segno distintivo applicato sugli edifici pubblici e sui monumenti. Un rettangolo su sfondo giallo suddiviso in due triangoli uno bianco e uno nero.
Torino a causa della sua posizione geografica venne immediatamente presa di mira. Per questo motivo allo scoppio della guerra vennero subito prese le misure di protezione studiate. Le opere d’arte mobili vennero trasportate negli appositi ricoveri mentre per le opere inamovibili si presero i provvedimenti in situ. Le opere trasportabili trovarono in parte rifugio presso i ricoveri sotterranei degli stessi palazzi (che risultarono nel corso del conflitto non adatti a tale scopo) Palazzo Accademia scienze, Palazzo Carignano, Palazzo Madama in parte vennero invece spediti in ricoveri appositamente studiati fuori dal territorio piemontese (Modena, Pisa). Dopo l’armistizio, in particolare nel corso del ’44, molte delle opere piemontesi che si trovavano presso questi luoghi, tornarono sul suolo piemontese per paura dell’avanzata degli alleati, in particolare presso le Isole Borromee e presso il Castello di Agliè.
Il trasporto delle opere d’arte prevedeva l’impiego di tutta una serie di materiali di imballaggio, l’utilizzo di casse in legno o zinco appositamente predisposte e la compilazione di dettagliati elenchi riportanti le opere d’arte contenute in ogni singola cassa e gli itinerari da seguire per portarle a destinazione.
Non poche furono le difficoltà per trovare mezzi e benzina per procedere con i trasporti: furono impiegati camioncini Fiat, ma anche imbarcazioni.
Ma a Torino cosa successe in pratica? Quali azioni furono realmente messe in atto? A che punto queste furono efficaci?
Le carte d’archivio, le foto storiche, gli articoli di giornale dell’epoca, ci hanno consentito di ricostruire singole vicende, come quella del monumento di Emanuele Filiberto in piazza San Carlo, meglio conosciuta dai torinesi come “Cavallo di bronzo”. Non solo le statue furono protette in loco. Anche per i palazzi erano previste delle azioni di protezione: i vetri delle finestre di Palazzo Accademia delle Scienze furono messi in sicurezza con l’applicazione di nastro adesivo, mentre all’interno le finestre erano tamponate con assi di legno e le sale prive di aperture verso l’esterno venivano usate come magazzini provvisori per le opere in attesa di essere trasportate in luoghi più sicuri; le luci dei sotterranei, in corrispondenza dei ricoveri, furono tamponate con mattoni.
Tutti gli oggetti asportabile, imballati e sistemati in casse di legno o zinco, venivano depositati nelle sale al piano terra, come questi beni della Galleria Sabauda temporaneamente collocati nello statuario del Museo Egizio in attesa di essere portati in luogo sicuro.
Meno felice fu la sorte che toccò alla Biblioteca Comunale della città, oggi Civica. Durante la guerra fu ripetutamente bersagliata da spezzoni e bombe incendiarie fino al 1943, quando l’edificio, colpito in pieno da una bomba ad alto potenziale, fu quasi totalmente distrutto. Il patrimonio librario, circa 200.000 fra volumi e opuscoli, riuscì tuttavia in gran parte ed essere salvato grazie alle moderne scaffalature in ferro di cui era dotata. Dopo il disastro, il personale della biblioteca si dedicò a un rischioso recupero tra le macerie delle collezioni ancora rimaste negli scaffali e sepolte dalle rovine dell’edificio. I volumi, provvisoriamente accantonati nei sotterranei dell’edificio, vennero recuperati e trasferiti nei ricoveri fuori città dove erano già stati trasportati i manoscritti e le opere a stampa rare e di grande pregio. Le casse furono inviate in gran parte al castello di Fénis in Valle d’Aosta e in quello di Settime d’Asti. Le successive incursioni aeree dello stesso anno distrussero quasi totalmente l’edificio di corso Palestro. Terminato il conflitto, il materiale più pregiato della Biblioteca Civica rientrò a Torino già nel luglio 1945, mentre la maggior parte del restante materiale sfollato giunse in città nel corso del 1946. Nel marzo 1948 la Biblioteca fu riaperta al pubblico nell’ala ottocentesca di Palazzo Carignano dove rimase fino al 3 novembre 1960, quando fu inaugurata la nuova sede della Biblioteca Civica Centrale, sorta sulla stessa area del precedente edificio.
E la Sindone, da chi e come fu salvata?
Il trasferimento in altra sede della reliquia di proprietà reale, fu voluto e fatto attuare dal re Vittorio Emanuele III: né Mussolini, né il cardinale Fossati, Arcivescovo di Torino, furono informati della partenza della Sindone dal capoluogo piemontese.
Un lungo tragitto portò la Sindone inizialmente a Roma nella cappella di Guido Reni presso il Palazzo del Quirinale, dove risiedevano i Savoia. Nel timore di incursioni dei cacciabombardieri anglo–americani, la famiglia reale decise di rivolgersi al Vaticano, ritenendo che quel luogo offrisse maggiori requisiti di sicurezza. Ma la Santa Sede comunicò ai Savoia che anche il Vaticano stesso non era ritenuto sicuro. Si pensò allora all’abbazia di Montecassino, ma anche questa sede non sembrò sicura, come dimostrarono poi le vicende storiche: le bombe alleate, infatti, la rasero al suolo nel ’44. Si optò quindi per il monastero di Montevergine, vicino ad Avellino, anche per i legami che la famiglia aveva storicamente con i monaci benedettini.
La reliquia fu collocata sotto l’altare del Coretto di notte chiuso con un robusto paliotto di legno, dopodiché si procedette a siglare gli atti della consegna ufficiale. Terminata la guerra, il 28 ottobre del 1946 il cardinale Fossati raggiunse in auto Montevergine. Solo allora i monaci scoprirono di aver custodito, esattamente per 7 anni, 1 mese e 4 giorni la Sindone.
Prima di ripartire, il cardinale acconsenti a esporla come desiderato dai monaci suoi custodi. Poi tutti i presenti la portarono in processione all’automezzo che l’avrebbe riportata fino a Roma. Qui la cassa fu caricata su un treno per Torino, dove arrivò alle 11.30 del 31 ottobre. Ad attendere Fossati e il Telo alla stazione di Porta Nuova c’era un piccolo gruppo di persone, i pochi che erano venuti a sapere del grande ritorno.
Se parliamo di bombardamenti, non possiamo mancare di accennare alla guerra, la 2° Guerra Mondiale, che sarà ricordata come la più tragica e sanguinosa di tutta la storia dell’uomo.
Lo storico americano Joseph V. O'Brien, ipotizza 71.090.060 morti. 22.564.947 militari, 48.525.113 civili. Cifre spaventose che evidenziano differenza da tutte le altre guerre Si trattava di combattere non solo il folle disegno di un’espansione militare, ma di combattere un ideale aberrante di una supremazia razziale, perpetrata dal nazismo e sostenuta dal fascismo.
Quella non fu una guerra di fronte con il coinvolgimento di porzioni, seppur vaste, di territorio; ma vi fu un coinvolgimento anche della popolazione attraverso i bombardamenti. Tecnica sperimentata dalla Luftwaffe tedesca nel 1937 sulla città basca di Guernica.
Alle bombe di piccolo peso della fase iniziale del conflitto, si sostituirono bombe sempre più grandi e micidiali, pesanti migliaia di chili come i famigerati block-buster inglesi, di 8000 libbre, circa 4 tonnellate, capaci di distruggere ogni cosa nel raggio di oltre 200 metri.
Su Torino di queste bombe a partire dal 21 novembre 1942, ne furono sganciate a decine. Questo fu possibile grazie alla capacità bellica raggiunta dalla RAF britannica, che mise in campo aerei sempre più potenti, come il quadrimotore Avro Type 683 Lancaster.
Esistevano inoltre anche particolari tecniche di bombardamenti, tese al miglior raggiungimento del risultato. Senza dubbio il famigerato tappeto di bombe è quello che più di altre fu caparbiamente perseguito dagli inglesi, una tecnica che significava colpire indistintamente obiettivi militari e civili, affinché le popolazioni si ribellassero ai regimi. Sostenitore di questa tesi fu Arthur Travers Harris, soprannominato Butcher Harris (Harris il Macellaio).
Torino nei piani della RAF britannica doveva essere uno degli obiettivi predestinati, ma la sua conformazione urbana con ampi viali, grandi piazze e case costruite con materiali non facilmente infiammabili, fece sì che non si realizzò mai questo disegno. A differenza delle città tedesche che invece conobbero gli effetti di una tecnica così incredibilmente devastante, come Colonia, Amburgo, Kessel, Norimberga, Dresda, Berlino, Rotterdam.
In questa situazione estremamente tragica, una guerra senz’armi fu combattuta anche dai VVF su un “fronte” non meno pericoloso di quello militare, fatto di bombe, crolli, distruzioni, macerie e lutti. Una guerra combattuta con la tenacia e la rabbia di chi fu lasciato solo a fronteggiare una drammatica situazione, con pochi mezzi.
Si scavava con le mani, si andava a piedi sui luoghi del soccorso, si usava il liquame delle fogne per spegnere gli incendi, si operava per 4/5 giorni consecutivi senza mai chiedere il cambio, ritenuto disonorevole, si soffriva e si gioiva con la gente quando si riusciva a strappare qualcuno vivo da sotto tonnellate di macerie, con la disperazione e la forza di volontà.
In quei tempi difficili, dove la vita umana era appesa ad un esile filo, il VVF rappresentava uno dei pochi punti di riferimento, e non solo nei tragici momenti del soccorso, ma anche in compiti non prettamente d’istituto.
Quanti ebrei nascosti nelle autobotti furono portati in salvo, quando la lotta partigiana ancora non muoveva i primi passi. Quanti perseguitati politici nascosti o prigionieri inglesi portati all’estero. Quanti danari o oggetti ricchi e poveri strappati con grande rischio dal crollo delle case per essere riconsegnati all’affetto dei legittimi proprietari.
Atti eroici, perdonate un termine forse oggi desueto e retorico, compiuti per la difesa della gente che mai mancò a sua volta, di tributare riconoscimenti ai pompieri.
Furono decine i vigili del fuoco che morirono per cause legate al soccorso guerra.
La mostra
La mostra trae ispirazione dal volume “Salvare Torino e l’arte” e si prefigge, oltre che di far conoscere i suoi contenuti, di far avvicinare lo spettatore a due fondamentali argomenti:
la salvaguardia della città e dei suoi abitanti e la tutela dei beni artistici e architettonici torinesi dagli eventi bellici causati dal secondo conflitto mondiale.
L’esposizione si caratterizza come un insieme di immagini, oggetti, filmati, ricostruzioni e tecnologie, scelti e selezionati per esprimere le grandi e gravi difficoltà di un doloroso momento storico. Racconta come vennero affrontati i grandi problemi negli anni immediatamente precedenti il conflitto e durante i cinque anni dello stesso e quanto fu fatto per cercare di mettere al riparo, nei limiti delle umane possibilità, la popolazione e la grande ricchezza storica.
La mostra intende accompagnare e stimolare la percezione dello spettatore, portandolo a riflettere e a vivere, seppur in una forma e in una dimensione molto diversa dalla realtà, emozioni, drammi e sensazioni purtroppo del tutto famigliari per la popolazione torinese, e non solo, in quegli anni.
L’evento espositivo si caratterizza anche come allestimento in un luogo particolare, realizzato sia nel rispetto del luogo stesso – l’interessante e suggestivo piano espositivo interrato di Palazzo Barolo – sia nel rispetto del messaggio che i materiali e i documenti esposti vogliono dare, stabilendo un giusto equilibrio tra il luogo e i materiali, in modo tale che né l’uno né l’altro abbia il sopravvento.
PERCORSO PROPOSTO
A partire dal piccolo atrio del Salone Centrale, grazie alla presenza di alcune immagini orizzontali e verticali e a un audio riportante rumori e suoni dell’epoca, è possibile da subito percepire l’intensità emotiva che si riceverà negli spazi successivi.
La visita vera e propria ha inizio a partire dall’ampio spazio successivo, denominato Salone Centrale, all’interno del quale sono state allestite alcune aree tematiche e prosegue attraverso la cosiddetta “Sala Ovale”, per terminare nello spazio dedicato alla realtà virtuale.
Il percorso della mostra è suddiviso in otto sezioni:
1. La preparazione all’evento bellico
Verranno messi in esposizione oggetti, immagini e documenti relativi all’organizzazione delle strutture pubbliche preposte alla salvaguardia della popolazione e dei beni artistici
2. I bombardamenti
I danni subiti dalla città e dai suoi abitanti a causa dei bombardamenti e lo sforzo dei vigili del fuoco per la loro tutela;
3. La tutela dei beni artistici
Con l’aiuto di alcune immagini di grande formato e la ricostruzione della casseratura in legno che simboleggia la protezione, in situ, delle statue nelle piazze cittadine, si vuole far capire al visitatore non solo i tentativi, a volte finiti male, di protezione dei beni artistici inamovibili, ma anche le mutate percezioni del paesaggio urbano dell’epoca.
4. La realtà virtuale
La mostra si conclude con l’accompagnamento del visitatore verso un’esperienza di realtà virtuale. Qui, attraverso l’utilizzo di alcuni visori, si potrà rivivere una scena di vita quotidiana, improvvisamente interrotta dalla deflagrazione di un bombardamento, la discesa e la vita durante la permanenza nel rifugio.
Gli autori di “SALVARE TORINO E L’ARTE
Elena Imarisio e Letizia Sartoris sono due giovani architetti torinesi. Iniziano la loro collaborazione nel 2002 al primo anno di Politecnico, a Torino. Entrambe appassionate di arte e storia, concentrano l’interesse sulla loro città, Torino, laureandosi in Architettura nel 2008 con una tesi sulla protezione del patrimonio culturale e sui rifugi antiaerei.
Terminati gli studi Elena, senza mai abbandonare la ricerca archivistica e l’esplorazione dei rifugi, lavora come architetto presso uno studio associato con cui segue importanti lavori di restauro. Letizia, dopo aver lavorato per qualche anno in campo ambientale, dal 2012 diventa insegnante di Tecnologia e Arte e Immagine nelle scuole medie.
Michele Sforza, Vigile del Fuoco a Torino dal 1976 al 2014, ha progettato e diretto l’Archivio Storico del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco ed è autore di numerose pubblicazioni.
Nel 1992 ha pubblicato il suo primo libro Pompieri, Cinque secoli di storia di un antica istituzione (Umberto Allemandi & C.). Nel 1998 ha pubblicato la prima versione del libro La città sotto il fuoco della guerra (Umberto Allemandi & C.), ristampata in versione rivista e aggiornata nel 2014. Nel 2000 ha realizzato l’apparato iconografico del libro Il Fuoco e la Sindone (Timeo Editore). Nel 2003 ha collaborato alla realizzazione del libro La lana e il Fuoco, incendi, industria e pompieri nel territorio biellese. Nel 2018 ha pubblicato il volume Saluti da Foggia (Andrea Pacilli Editore).
Infine collabora a pubblicazioni storiche e riviste settoriali.
Come sono stati protetti i reperti del Museo Egizio e la Sindone?
Perché la Mole Antonelliana si è salvata dagli attacchi dei bombardieri alleati?
Com’era organizzato il sistema di difesa civile? La mostra risponde a queste e molte altre domande attraverso immagini, filmati d’epoca e l’esperienza di realtà virtuale “Torino, 12 giugno 1940”. Ai visitatori sono illustrate le opere di salvataggio del patrimonio artistico e culturale piemontese da parte dei funzionari, direttori di musei, insegnanti e vigili del fuoco che durante la Seconda guerra mondiale si adoperarono per preservare quante più opere e documenti possibili. Sono inoltre descritte le azioni di salvataggio della popolazione ad opera dai vigili del fuoco durante e dopo i numerosi bombardamenti subiti dalla città tra il 1940 e il 1945.
La mostra è ispirata al libro “Salvare Torino e l’arte”, scritto da Elena Imarisio, Letizia Sartoris e Michele Sforza e pubblicato da Graphot editrice.
Nell’immaginario collettivo Torino viene associata all’industria con lo sviluppo del settore della siderurgia, metallurgia e meccanica che vede la FIAT come principale attore di questo scenario. Le inevitabili trasformazioni sotto l’aspetto urbano e sociale (immigrazione) e il lento distaccarsi dalla tradizione sabauda verso la nuova connotazione legata alla rivoluzione industriale, mutano profondamente la città. Ma il nostro interesse si è rivolto all’altra Torino quella legata all’arte e alla fruizione museale da parte dei cittadini. La città si sta modificando assumendo caratteristiche di modernità. L’arte? Vuole emergere in qualche modo dopo gli anni di guerra, ma si trova di fronte un regime totalitario. Figure come Casorati cominciano ad entrare in conflitto con la Promotrice di Belle Arti. Riccardo Gualino, imprenditore torinese, grande collezionista cede la sua collezione alla galleria sabauda prima di essere arrestato dal regime.
La città era preparata per un attacco nel giugno del 40? Assolutamente no. Nonostante già durante la prima guerra mondiale si fossero verificati episodi di distruzione del patrimonio come la cattedrale di Reims. La macchina della protezione e della tutela in Italia, iniziò ad essere efficace molto tardi.
Per quanto riguarda l’aspetto della protezione passiva del patrimonio artistico e culturale italiano, il Ministero di competenza negli anni ’30 era quello dell’Educazione Nazionale con l’aiuto delle Soprintendenze.
Nel ’34 il ministero attraverso due circolari diede indicazioni importanti sulla salvaguardia delle opere suddividendo i beni in beni immobili e mobili. Per i primi si prevedeva il trasporto in località protette, mentre per i secondi una protezione in situ con materassi di alghe e sacchi di sabbia.
Nel 1937 la distruzione della città di Guernica, immortalata da Picasso, evidenziava l’importanza di muoversi preventivamente contro gli attacchi aerei.
Da qui la necessità di un riordino legislativo, nonché un coordinamento tra Ministero, Soprintendenze e organi provinciali di protezione. La nuova serie di indicazioni introducono un nuovo mezzo di protezione: un segno distintivo applicato sugli edifici pubblici e sui monumenti. Un rettangolo su sfondo giallo suddiviso in due triangoli uno bianco e uno nero.
Torino a causa della sua posizione geografica venne immediatamente presa di mira. Per questo motivo allo scoppio della guerra vennero subito prese le misure di protezione studiate. Le opere d’arte mobili vennero trasportate negli appositi ricoveri mentre per le opere inamovibili si presero i provvedimenti in situ. Le opere trasportabili trovarono in parte rifugio presso i ricoveri sotterranei degli stessi palazzi (che risultarono nel corso del conflitto non adatti a tale scopo) Palazzo Accademia scienze, Palazzo Carignano, Palazzo Madama in parte vennero invece spediti in ricoveri appositamente studiati fuori dal territorio piemontese (Modena, Pisa). Dopo l’armistizio, in particolare nel corso del ’44, molte delle opere piemontesi che si trovavano presso questi luoghi, tornarono sul suolo piemontese per paura dell’avanzata degli alleati, in particolare presso le Isole Borromee e presso il Castello di Agliè.
Il trasporto delle opere d’arte prevedeva l’impiego di tutta una serie di materiali di imballaggio, l’utilizzo di casse in legno o zinco appositamente predisposte e la compilazione di dettagliati elenchi riportanti le opere d’arte contenute in ogni singola cassa e gli itinerari da seguire per portarle a destinazione.
Non poche furono le difficoltà per trovare mezzi e benzina per procedere con i trasporti: furono impiegati camioncini Fiat, ma anche imbarcazioni.
Ma a Torino cosa successe in pratica? Quali azioni furono realmente messe in atto? A che punto queste furono efficaci?
Le carte d’archivio, le foto storiche, gli articoli di giornale dell’epoca, ci hanno consentito di ricostruire singole vicende, come quella del monumento di Emanuele Filiberto in piazza San Carlo, meglio conosciuta dai torinesi come “Cavallo di bronzo”. Non solo le statue furono protette in loco. Anche per i palazzi erano previste delle azioni di protezione: i vetri delle finestre di Palazzo Accademia delle Scienze furono messi in sicurezza con l’applicazione di nastro adesivo, mentre all’interno le finestre erano tamponate con assi di legno e le sale prive di aperture verso l’esterno venivano usate come magazzini provvisori per le opere in attesa di essere trasportate in luoghi più sicuri; le luci dei sotterranei, in corrispondenza dei ricoveri, furono tamponate con mattoni.
Tutti gli oggetti asportabile, imballati e sistemati in casse di legno o zinco, venivano depositati nelle sale al piano terra, come questi beni della Galleria Sabauda temporaneamente collocati nello statuario del Museo Egizio in attesa di essere portati in luogo sicuro.
Meno felice fu la sorte che toccò alla Biblioteca Comunale della città, oggi Civica. Durante la guerra fu ripetutamente bersagliata da spezzoni e bombe incendiarie fino al 1943, quando l’edificio, colpito in pieno da una bomba ad alto potenziale, fu quasi totalmente distrutto. Il patrimonio librario, circa 200.000 fra volumi e opuscoli, riuscì tuttavia in gran parte ed essere salvato grazie alle moderne scaffalature in ferro di cui era dotata. Dopo il disastro, il personale della biblioteca si dedicò a un rischioso recupero tra le macerie delle collezioni ancora rimaste negli scaffali e sepolte dalle rovine dell’edificio. I volumi, provvisoriamente accantonati nei sotterranei dell’edificio, vennero recuperati e trasferiti nei ricoveri fuori città dove erano già stati trasportati i manoscritti e le opere a stampa rare e di grande pregio. Le casse furono inviate in gran parte al castello di Fénis in Valle d’Aosta e in quello di Settime d’Asti. Le successive incursioni aeree dello stesso anno distrussero quasi totalmente l’edificio di corso Palestro. Terminato il conflitto, il materiale più pregiato della Biblioteca Civica rientrò a Torino già nel luglio 1945, mentre la maggior parte del restante materiale sfollato giunse in città nel corso del 1946. Nel marzo 1948 la Biblioteca fu riaperta al pubblico nell’ala ottocentesca di Palazzo Carignano dove rimase fino al 3 novembre 1960, quando fu inaugurata la nuova sede della Biblioteca Civica Centrale, sorta sulla stessa area del precedente edificio.
E la Sindone, da chi e come fu salvata?
Il trasferimento in altra sede della reliquia di proprietà reale, fu voluto e fatto attuare dal re Vittorio Emanuele III: né Mussolini, né il cardinale Fossati, Arcivescovo di Torino, furono informati della partenza della Sindone dal capoluogo piemontese.
Un lungo tragitto portò la Sindone inizialmente a Roma nella cappella di Guido Reni presso il Palazzo del Quirinale, dove risiedevano i Savoia. Nel timore di incursioni dei cacciabombardieri anglo–americani, la famiglia reale decise di rivolgersi al Vaticano, ritenendo che quel luogo offrisse maggiori requisiti di sicurezza. Ma la Santa Sede comunicò ai Savoia che anche il Vaticano stesso non era ritenuto sicuro. Si pensò allora all’abbazia di Montecassino, ma anche questa sede non sembrò sicura, come dimostrarono poi le vicende storiche: le bombe alleate, infatti, la rasero al suolo nel ’44. Si optò quindi per il monastero di Montevergine, vicino ad Avellino, anche per i legami che la famiglia aveva storicamente con i monaci benedettini.
La reliquia fu collocata sotto l’altare del Coretto di notte chiuso con un robusto paliotto di legno, dopodiché si procedette a siglare gli atti della consegna ufficiale. Terminata la guerra, il 28 ottobre del 1946 il cardinale Fossati raggiunse in auto Montevergine. Solo allora i monaci scoprirono di aver custodito, esattamente per 7 anni, 1 mese e 4 giorni la Sindone.
Prima di ripartire, il cardinale acconsenti a esporla come desiderato dai monaci suoi custodi. Poi tutti i presenti la portarono in processione all’automezzo che l’avrebbe riportata fino a Roma. Qui la cassa fu caricata su un treno per Torino, dove arrivò alle 11.30 del 31 ottobre. Ad attendere Fossati e il Telo alla stazione di Porta Nuova c’era un piccolo gruppo di persone, i pochi che erano venuti a sapere del grande ritorno.
Se parliamo di bombardamenti, non possiamo mancare di accennare alla guerra, la 2° Guerra Mondiale, che sarà ricordata come la più tragica e sanguinosa di tutta la storia dell’uomo.
Lo storico americano Joseph V. O'Brien, ipotizza 71.090.060 morti. 22.564.947 militari, 48.525.113 civili. Cifre spaventose che evidenziano differenza da tutte le altre guerre Si trattava di combattere non solo il folle disegno di un’espansione militare, ma di combattere un ideale aberrante di una supremazia razziale, perpetrata dal nazismo e sostenuta dal fascismo.
Quella non fu una guerra di fronte con il coinvolgimento di porzioni, seppur vaste, di territorio; ma vi fu un coinvolgimento anche della popolazione attraverso i bombardamenti. Tecnica sperimentata dalla Luftwaffe tedesca nel 1937 sulla città basca di Guernica.
Alle bombe di piccolo peso della fase iniziale del conflitto, si sostituirono bombe sempre più grandi e micidiali, pesanti migliaia di chili come i famigerati block-buster inglesi, di 8000 libbre, circa 4 tonnellate, capaci di distruggere ogni cosa nel raggio di oltre 200 metri.
Su Torino di queste bombe a partire dal 21 novembre 1942, ne furono sganciate a decine. Questo fu possibile grazie alla capacità bellica raggiunta dalla RAF britannica, che mise in campo aerei sempre più potenti, come il quadrimotore Avro Type 683 Lancaster.
Esistevano inoltre anche particolari tecniche di bombardamenti, tese al miglior raggiungimento del risultato. Senza dubbio il famigerato tappeto di bombe è quello che più di altre fu caparbiamente perseguito dagli inglesi, una tecnica che significava colpire indistintamente obiettivi militari e civili, affinché le popolazioni si ribellassero ai regimi. Sostenitore di questa tesi fu Arthur Travers Harris, soprannominato Butcher Harris (Harris il Macellaio).
Torino nei piani della RAF britannica doveva essere uno degli obiettivi predestinati, ma la sua conformazione urbana con ampi viali, grandi piazze e case costruite con materiali non facilmente infiammabili, fece sì che non si realizzò mai questo disegno. A differenza delle città tedesche che invece conobbero gli effetti di una tecnica così incredibilmente devastante, come Colonia, Amburgo, Kessel, Norimberga, Dresda, Berlino, Rotterdam.
In questa situazione estremamente tragica, una guerra senz’armi fu combattuta anche dai VVF su un “fronte” non meno pericoloso di quello militare, fatto di bombe, crolli, distruzioni, macerie e lutti. Una guerra combattuta con la tenacia e la rabbia di chi fu lasciato solo a fronteggiare una drammatica situazione, con pochi mezzi.
Si scavava con le mani, si andava a piedi sui luoghi del soccorso, si usava il liquame delle fogne per spegnere gli incendi, si operava per 4/5 giorni consecutivi senza mai chiedere il cambio, ritenuto disonorevole, si soffriva e si gioiva con la gente quando si riusciva a strappare qualcuno vivo da sotto tonnellate di macerie, con la disperazione e la forza di volontà.
In quei tempi difficili, dove la vita umana era appesa ad un esile filo, il VVF rappresentava uno dei pochi punti di riferimento, e non solo nei tragici momenti del soccorso, ma anche in compiti non prettamente d’istituto.
Quanti ebrei nascosti nelle autobotti furono portati in salvo, quando la lotta partigiana ancora non muoveva i primi passi. Quanti perseguitati politici nascosti o prigionieri inglesi portati all’estero. Quanti danari o oggetti ricchi e poveri strappati con grande rischio dal crollo delle case per essere riconsegnati all’affetto dei legittimi proprietari.
Atti eroici, perdonate un termine forse oggi desueto e retorico, compiuti per la difesa della gente che mai mancò a sua volta, di tributare riconoscimenti ai pompieri.
Furono decine i vigili del fuoco che morirono per cause legate al soccorso guerra.
La mostra
La mostra trae ispirazione dal volume “Salvare Torino e l’arte” e si prefigge, oltre che di far conoscere i suoi contenuti, di far avvicinare lo spettatore a due fondamentali argomenti:
la salvaguardia della città e dei suoi abitanti e la tutela dei beni artistici e architettonici torinesi dagli eventi bellici causati dal secondo conflitto mondiale.
L’esposizione si caratterizza come un insieme di immagini, oggetti, filmati, ricostruzioni e tecnologie, scelti e selezionati per esprimere le grandi e gravi difficoltà di un doloroso momento storico. Racconta come vennero affrontati i grandi problemi negli anni immediatamente precedenti il conflitto e durante i cinque anni dello stesso e quanto fu fatto per cercare di mettere al riparo, nei limiti delle umane possibilità, la popolazione e la grande ricchezza storica.
La mostra intende accompagnare e stimolare la percezione dello spettatore, portandolo a riflettere e a vivere, seppur in una forma e in una dimensione molto diversa dalla realtà, emozioni, drammi e sensazioni purtroppo del tutto famigliari per la popolazione torinese, e non solo, in quegli anni.
L’evento espositivo si caratterizza anche come allestimento in un luogo particolare, realizzato sia nel rispetto del luogo stesso – l’interessante e suggestivo piano espositivo interrato di Palazzo Barolo – sia nel rispetto del messaggio che i materiali e i documenti esposti vogliono dare, stabilendo un giusto equilibrio tra il luogo e i materiali, in modo tale che né l’uno né l’altro abbia il sopravvento.
PERCORSO PROPOSTO
A partire dal piccolo atrio del Salone Centrale, grazie alla presenza di alcune immagini orizzontali e verticali e a un audio riportante rumori e suoni dell’epoca, è possibile da subito percepire l’intensità emotiva che si riceverà negli spazi successivi.
La visita vera e propria ha inizio a partire dall’ampio spazio successivo, denominato Salone Centrale, all’interno del quale sono state allestite alcune aree tematiche e prosegue attraverso la cosiddetta “Sala Ovale”, per terminare nello spazio dedicato alla realtà virtuale.
Il percorso della mostra è suddiviso in otto sezioni:
1. La preparazione all’evento bellico
Verranno messi in esposizione oggetti, immagini e documenti relativi all’organizzazione delle strutture pubbliche preposte alla salvaguardia della popolazione e dei beni artistici
2. I bombardamenti
I danni subiti dalla città e dai suoi abitanti a causa dei bombardamenti e lo sforzo dei vigili del fuoco per la loro tutela;
3. La tutela dei beni artistici
Con l’aiuto di alcune immagini di grande formato e la ricostruzione della casseratura in legno che simboleggia la protezione, in situ, delle statue nelle piazze cittadine, si vuole far capire al visitatore non solo i tentativi, a volte finiti male, di protezione dei beni artistici inamovibili, ma anche le mutate percezioni del paesaggio urbano dell’epoca.
4. La realtà virtuale
La mostra si conclude con l’accompagnamento del visitatore verso un’esperienza di realtà virtuale. Qui, attraverso l’utilizzo di alcuni visori, si potrà rivivere una scena di vita quotidiana, improvvisamente interrotta dalla deflagrazione di un bombardamento, la discesa e la vita durante la permanenza nel rifugio.
Gli autori di “SALVARE TORINO E L’ARTE
Elena Imarisio e Letizia Sartoris sono due giovani architetti torinesi. Iniziano la loro collaborazione nel 2002 al primo anno di Politecnico, a Torino. Entrambe appassionate di arte e storia, concentrano l’interesse sulla loro città, Torino, laureandosi in Architettura nel 2008 con una tesi sulla protezione del patrimonio culturale e sui rifugi antiaerei.
Terminati gli studi Elena, senza mai abbandonare la ricerca archivistica e l’esplorazione dei rifugi, lavora come architetto presso uno studio associato con cui segue importanti lavori di restauro. Letizia, dopo aver lavorato per qualche anno in campo ambientale, dal 2012 diventa insegnante di Tecnologia e Arte e Immagine nelle scuole medie.
Michele Sforza, Vigile del Fuoco a Torino dal 1976 al 2014, ha progettato e diretto l’Archivio Storico del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco ed è autore di numerose pubblicazioni.
Nel 1992 ha pubblicato il suo primo libro Pompieri, Cinque secoli di storia di un antica istituzione (Umberto Allemandi & C.). Nel 1998 ha pubblicato la prima versione del libro La città sotto il fuoco della guerra (Umberto Allemandi & C.), ristampata in versione rivista e aggiornata nel 2014. Nel 2000 ha realizzato l’apparato iconografico del libro Il Fuoco e la Sindone (Timeo Editore). Nel 2003 ha collaborato alla realizzazione del libro La lana e il Fuoco, incendi, industria e pompieri nel territorio biellese. Nel 2018 ha pubblicato il volume Saluti da Foggia (Andrea Pacilli Editore).
Infine collabora a pubblicazioni storiche e riviste settoriali.